Cambiare la società, un’ora alla volta
diritti, Idee, lavoro, sinistra, solidarietà TAGS / disoccupazione, inoccupazione, Marco Grimaldi, poco lavoro, riduzione orario di lavoro, troppo lavoro admin 9 aprile 2018In Italia si lavora troppo o si lavora niente. Assenteismo, depressione e ansia hanno spesso un comune denominatore: lo stress da troppo lavoro. Già. Ansia, depressione e mancanza di autostima hanno spesso un comune denominatore: lo stress da non lavoro. Proprio così.
Vorrei, per una volta, non partire dai dati economici per raccontare la situazione del mondo, del lavoro e del Paese. A cominciare da questo incipit, mi piacerebbe parlarvi di una proposta in pillole: ridurre l’orario di lavoro a parità di salario, per aumentare l’occupazione e la produttività; redistribuire il lavoro per redistribuire il reddito.
Nove buone ragioni che troverete sul bugiardino:
1. Perché c’è un rapporto evidente tra orari ridotti e tassi di occupazione più elevati. Gli occupati italiani lavorano circa il 25% in più di quelli tedeschi. A quanto risulta da vari studi, il lavoro reso disponibile dalla riduzione degli orari si tradurrebbe per circa il 50% in nuova occupazione.
2. Perché un’elevata produttività è anche effetto combinato di orari ridotti e alto tasso di occupazione. Si assorbono più persone competenti, per esempio giovani qualificati, con un ritorno per le imprese più innovative.
3. Perché la crescita di produttività e di occupazione potrebbero riequilibrare il rapporto tra profitti e salari, ossia fra capitale e lavoro. Gli aumenti di produttività negli ultimi anni sono andati in larga parte a vantaggio dei profitti e del capitale, tuttavia la misura che proponiamo potrebbe riequilibrare tale distribuzione.
4. Perché la concorrenza fra imprese sarebbe maggiormente fondata su innovazione, ricerca e competenze professionali, anziché sul contenimento dei costi del lavoro.
5. Perché avrebbe un impatto positivo sull’esistenza individuale e sociale delle persone, liberando tempo e energie per la vita privata, la partecipazione sociale e le relazioni.
6. Perché produrrebbe un riequilibrio di genere. Gli uomini potrebbero assumere su di sé una maggior quota del lavoro riproduttivo e le competenze delle donne sarebbero valorizzate nel sistema produttivo.
7. Perché l’individuazione di dispositivi legali di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro porrebbe vincoli alla domanda di lavoro delle imprese e limiterebbe la piena disponibilità sulla gestione del tempo di lavoro o il ricorso a processi di outsourcing.
8. Perché potrebbe andare di pari passo a una maggiore partecipazione dei lavoratori all’impresa, come avvenuto in alcuni paesi, affidando alla contrattazione collettiva uno spazio di iniziativa autonoma, o semplicemente regolando l’organizzazione del lavoro a partire dal controllo sui tempi, o rendendo il lavoratore partecipe delle decisioni dell’impresa.
9. Perché è dimostrato che, dove sono stati ridotti gli orari di lavoro, sono aumentati i consumi nella fruizione del tempo libero e della cultura, rilanciando quei settori.
Per fare tutto ciò bisogna innanzitutto sgomberare il campo del ragionamento da alcune strutture ideologiche fallaci, analizzando la situazione italiana nel contesto globale, ripercorrendo le tappe storiche degli ultimi decenni e affrontando di petto alcuni dogmi liberisti.
La situazione italiana
Il lavoro è una risorsa scarsa, il tasso di disoccupazione è all’11,1% e le persone in cerca di lavoro sono 2.891.000. L’Italia è, nell’area euro, il paese con il più elevato tasso di disoccupazione dopo la Spagna.
Negli ultimi anni il contenimento del costo del lavoro, anziché rilanciare l’economia nazionale, ha ridotto gli investimenti e accentuato il ricorso al lavoro precario e poco qualificato. Risultato: aumento del lavoro “povero”, abbassamento dei salari, segmentazione del mercato del lavoro, sacche di sfruttamento intensivo e alto tasso di disoccupazione. Con il Jobs Act, la decontribuzione a pioggia (non vincolata) alle imprese ha vaporizzato i soldi pubblici senza cambiare modello.
La situazione europea
A livello europeo le direttive sui tempi di lavoro fissano il massimo orario a 48 ore settimanali. In molti paesi dell’Unione la legislazione nazionale o un accordo collettivo nazionale hanno ridotto il massimo orario a 40 ore. Secondo i più recenti dati Oecd, all’interno dell’Unione Europea l’Italia si situa nella media, con un monte lavorativo annuo di 1730 ore nel 2016 (era di 1851 nel 2001). Spiccano invece il primo posto della Grecia (2035 ore) e l’ultimo della Germania (1363), a dimostrazione del fatto che certi ritratti dello stile di vita mediterraneo sono pura ideologia.
La crisi come alibi
A livello globale vi è stato uno scollamento fra crescita della produzione e meccanismi di redistribuzione sociale. Da un lato, la liberalizzazione del mercato finanziario ha consentito alle imprese di espandere i margini di profitto, dall’altro l’investimento nel campo della robotica e dell’automazione tecnologica ha permesso l’espulsione di quote sempre più ampie di forza lavoro: mentre cresceva la disoccupazione, aumentavano i ritmi e gli orari di chi lavorava.
Come si vede, la crisi c’entra poco con queste scelte. Un passo indietro. Fu proprio la disoccupazione di massa degli anni trenta a spingere molti paesi ad adottare la settimana corta di quaranta ore. Politiche di rilancio dell’economia e riduzione del tempo di lavoro vanno d’accordo.
E dopo? Con l’espansione degli anni sessanta e le lotte dei lavoratori, fra il ’67 e il ’70 furono riconosciuti quasi in tutta Europa il sabato festivo, un aumento delle ferie retribuite e le quaranta ore. Il monte lavorativo annuo passò da 2400 a 1800 ore pro capite. Per tutti gli anni ottanta e novanta gli orari contrattuali rimasero stabili, tuttavia si avviò un processo regressivo: aumentavano gli orari di fatto, i tempi di lavoro si intensificavano, molte attività venivano esternalizzate; finché negli anni novanta si avviò la riorganizzazione complessiva degli orari, con la famosa “flessibilità”: i turni si diversificarono ed estesero, si diffusero lavoro festivo e notturno, le imprese cominciarono a gestire unilateralmente l’orario individuale.
Le ragioni dei contrari
Chi critica la proposta sostiene che la riduzione dell’orario avrebbe un impatto negativo sul costo del lavoro: se le imprese assumono più lavoratori aumenterebbero i costi a parità di prodotto. Ciò renderebbe meno competitive le imprese e la stessa economia nazionale.
Su questo punto non esistono stime e prove empiriche, ma esiste una controprova: statistiche ufficiali raccontano che nel nostro paese vi è stata la riduzione più significativa del costo del lavoro tra i paesi dell’Eurozona, senza alcun beneficio sulla competitività delle imprese.
È vero che ridurre la prestazione a parità di salario aumenta i costi variabili (salari e contributi) e quelli fissi (di assunzione, addestramento, licenziamento, per immobili e strumenti). Ma i primi possono essere mitigati con aumenti di produttività, incentivi pubblici, rinuncia ad aumenti salariali, nuove misure organizzative; i secondi hanno un’incidenza bassa sul totale. In sostanza l’aumento del costo del lavoro sarebbe compensato e superato da un aumento della sua produttività.
D’altra parte diminuirebbero i costi per trattenere i dipendenti e abbassare il turnover, migliorerebbe il clima lavorativo riducendo probabilmente i licenziamenti; si contrarrebbero i costi indiretti dell’assenteismo, migliorando la salute individuale, e del presenzialismo, limitando i costi improduttivi legati all’allungamento dell’orario.
Ecco perché, nell’agenda di un governo che intenda lottare contro povertà e disoccupazione e nei programmi di tutte le sinistre europee, vorrei che questa proposta fosse prioritaria.
Presto presenteremo il nostro disegno di legge, perché a noi piace lavorare nell’orizzonte delle utopie concrete. Il 4 marzo gli elettori hanno chiesto di cambiare tutto. Io vorrei farlo con immaginazione e coraggio.