Da Nogara a None, storie di sfruttamento e conflitto.

diritti, Idee, lavoro TAGS / Coca cola, lavoro, Logistica, Nogara, None, sfruttamento admin 6 aprile 2017

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In questi giorni su Internazionale, Marta e Simone Fana raccontano di come la Coca-Cola di Nogara, dopo un cambio d’appalto del servizio di logistica, abbia licenziato quattordici lavoratori e modificato i tempi indeterminati in contratti a tutele crescenti. Una trentina di operai (su 77) decidono di non firmare l’accordo; il precedente appaltatore li mette in mobilità, compromettendone di fatto la riassunzione. I quattordici lavoratori licenziati sono i più attivi nelle battaglie portate avanti negli ultimi anni da AdlCobas, che hanno portato alla piena applicazione del contratto nazionale della logistica, alla cacciata di un caporale che aveva gestito in maniera illegale le assunzioni, e al riconoscimento dell’inquadramento al terzo livello invece che al sesto. Come prosegue la vicenda? Un presidio finisce con colpi di pistole elettriche da parte della sicurezza privata su una donna e su un lavoratore che tentava di raggiungerla; la Coca-Cola dichiara di voler interrompere la produzione e mettere in cassa integrazione i 450 dipendenti al fine di “ristabilire la legalità”, che sarebbe ostacolata dalla protesta dei lavoratori della logistica.

Ecco, mi piacerebbe che tutti conoscessero la storia che sto per raccontare ora e che invece, purtroppo, sta passando sotto silenzio. Una storia quasi identica a quella di Nogara.

Nel 2010, a None (TO), la Safim Srl (azienda della logistica alimentare a freddo, appaltante della Dimar Spa per i supermercati Mercatò, Family, ecc..) favorisce la costituzione della cooperativa Stella S.C., affidandole gran parte del suo carico di movimentazione merci. A capo della cooperativa Stella è un operaio egiziano proveniente dalla cooperativa A.C. Gestioni S.C., della quale uno dei proprietari della Safim era rappresentante legale. La Cooperativa Stella cresce rapidamente e oggi si avvale di circa 200-220 persone tra facchini, autisti e impiegati.

Gran parte dei primi assunti viene direttamente “reclutata” in Egitto, nella cerchia dei parenti e dei conoscenti del capo della cooperativa. Dal 2010 al 2014, i facchini della Stella lavorano fino a 14 ore al giorno per 6 giorni alla settimana. Spesso arrivano addirittura a lavorare più di 300 ore al mese con oltre 150 ore di straordinario mensili: ore però pagate forfettariamente soltanto 100 euro (cioè meno di 1 euro l’ora).

Grazie a ciò, negli anni la Safim raggiunge traguardi di fatturato enormi per milioni e milioni di euro, aprendo nuovi magazzini refrigerati di migliaia di metri quadrati.

Finalmente nel 2014, dopo anni di sfruttamento sempre più insostenibile, con tanti anche giovani e giovanissimi già colpiti da malattie professionali, una decina di lavoratori decidono di organizzarsi aderendo al sindacato Sicobas e sollevano delle rivendicazioni basilari (riconoscenza della rappresentanza sindacale, nuovi e migliori regimi salariali e contrattuali, condizioni di lavoro adeguate) attraverso scioperi, presidi, picchetti, campagne.

A maggio 2014 ottengono il riconoscimento come RSA e un accordo migliorativo del contratto collettivo nazionale del lavoro della logistica, portando il salario a 1500 euro netti al mese (per 8 ore di lavoro ed esteso a tutti i lavoratori).

Tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, grazie alla pressione dei lavoratori per essere internalizzati direttamente da Safim, la cooperativa Stella abbandona l’appalto, ma il trasferimento avviene disconoscendo la rappresentanza sindacale Sicobas e costringendo i lavoratori a sottoscrivere un tombale riguardo la loro precedente, irregolare situazione lavorativa e salariale presso la Stella. Così, sotto ricatto, perdono tutto ciò che avevano ottenuto con una lotta dura e lunga, a partire dal regime salariale e contrattuale conquistato solo pochi mesi prima.

A febbraio 2016, una cinquantina di lavoratori s’iscrive nuovamente al Sicobas, ma l’azienda si ostina a non riconoscere le RSA. A marzo, tutti i lavoratori egiziani scioperano bloccando l’azienda per 24 ore.

A maggio, l’azienda firma un accordo sulla produzione (mi risulta con la Cisl), che l’assemblea dei lavoratori boccia a stragrande maggioranza. Nonostante ciò il gruppo Safim decide di applicare ugualmente l’accordo.

Nel dicembre 2016 i lavoratori denunciano l’azienda all’Ispettorato del Lavoro per lavoro nero e attività antisindacale e discriminatoria. A seguito di ciò, tutti e quattro i rappresentanti Sicobas vengono licenziati in tronco, ufficialmente a causa della “rottura del rapporto di fiducia” con l’azienda. I lavoratori licenziati sono giovani egiziani emigrati in Italia dopo gli studi (anche universitari), tutti con famiglia.

Ma non è finita: a marzo la Safim denuncia una trentina di lavoratori perché “colpevoli” di aver partecipato a uno sciopero circa un anno e mezzo prima.

Così il 17 marzo i lavoratori Safim decidono di scioperare.

Per esprimere tutta la propria solidarietà alla Safim si scomoda il Presidente dell’Unione Industriale, che auspica che, “con la collaborazione dei lavoratori, delle Autorità locali e delle forze di Pubblica Sicurezza, la situazione possa trovare una rapida soluzione che consenta all’azienda di poter tornare a svolgere normalmente la propria attività economica, riacquistando quella libertà che è tutelata anche dalla nostra Carta Costituzionale”. Senza mancare di sottolineare che le azioni di protesta sarebbero avvenute “sotto il pretesto dell’opposizione a recenti licenziamenti disciplinari e camuffate da rivendicazioni sindacali sulle condizioni di lavoro”.

Questa storia riporta alla luce ciò che ancora Marta Fana ha chiamato “un modello produttivo pensato al massimo ribasso dei diritti”, già emerso a settembre con la morte di Abd Elsalam Ahmed Eldanf, operaio della ditta di logistica Gls ucciso da un camion della stessa azienda durante un picchetto.

Nel settore della logistica, al centro della catena produttiva, nascosta dalla retorica del “direttamente sul tuo divano”, si rafforza “l’alleanza tra logica del consumo e progressivo impoverimento dei lavoratori”, rimosso con il suo carico di sottoccupazione, a volte di autentico schiavismo.

Nel modello italiano, grandi colossi e medie imprese, nel tentativo di ridurre al massimo il costo del lavoro, ricorrono alle cooperative, spesso finte, che applicano condizioni di lavoro caratterizzate da un pesante sfruttamento.

Come anche la storia che ho raccontato dimostra, la gran parte dei lavoratori della logistica è composta da immigrati, ossia, spesso, dai soggetti più ricattabili che, organizzandosi e lottando, rischiano di più.

A chi serve l’assenza di conflitto? Io mi sono fatto un’idea. Voi?

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