Tra robot e isole del tesoro. Non è fantascienza, è il volto del capitalismo di oggi e domani

diritti, Idee, lavoro, sinistra, solidarietà, sostenibilità TAGS / congresso, reddito minimo, redistribuzione, Rimini, Sinistra Italiana admin 17 febbraio 2017

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Care compagne e cari compagni,
“nell’industria automobilistica tedesca il costo del lavoro è superiore ai 40 euro all’ora, nell’Europa dell’est sono 11, in Cina 10.
Oggi il costo di un sostituto meccanico per lavori di routine in fabbrica si aggira intorno ai cinque euro. E con la nuova generazione di robot diventerà presumibilmente ancora più economico”.
Le parole che vi ho appena letto sono di qualche tempo fa. Le ha pronunciate il capo del personale del gruppo Volkswagwen, Horst Newman, spiegando al mondo che nei prossimi 15 anni “andranno in pensione 32.000 persone” che loro “non intendono rimpiazzare”.
Qualche mese dopo, l’Onu ha lanciato un campanello d’allarme ben più chiaro: “i robot sostituiranno il 66% del lavoro umano”.
Basterà – come dice lo stesso report – “ridisegnare i sistemi educativi in modo da creare le competenze manageriali e professionali necessarie a lavorare con le nuove tecnologie”? Io non credo.
E non solo perché ho avuto la fortuna di avere dei genitori comunisti. Proverò a spiegarvelo con le parole della Banca d’Inghilterra, che ha da poco commissionato una ricerca sugli effetti di medio e lungo periodo dell’innovazione tecnologica digitale.
Mark Carney, Governatore della Banca d’Inghilterra, in un discorso alla Liverpool University ha spiegato che nei prossimi vent’anni anni i robot potrebbero far scomparire 15 milioni di posti di lavoro in Gran Bretagna, la metà del totale.
Operai? Non solo. Anzi, lo studio ricorda che saranno il settore amministrativo e il lavoro d’ufficio a pagare il prezzo più alto. L’esistenza stessa di questi lavori – ha spiegato Carney – rischia di essere resa inutile dal progresso di computer e intelligenza artificiale. “La nuova età delle macchine potrebbe avere effetti devastanti”.
Proprio così: “ogni rivoluzione tecnologica distrugge spietatamente posti di lavoro, e di conseguenza vite e identità, prima che emergano nuove occupazioni. È accaduto con la fine dell’economia agricola e l’emergere della rivoluzione industriale, si è ripetuto quando l’economia dei servizi ha eclissato quella manifatturiera, ora è probabile che il fenomeno si ripeta”.
L’automazione sta già sostituendo le persone dietro agli sportelli delle autostrade e ai banconi dei locali. Non stiamo parlando di fantascienza: come abbiamo scritto in un emendamento alle nostre tesi, McDonald ha reagito all’innalzamento del salario minimo negli States con il licenziamento di operai della ristorazione e la sostituzione di robot alla manodopera.
Quanto tempo ci vorrà perché la sinistra inizi a capire che l’istituzione di redditi minimi d’autonomia e di dignità non serve solo a combattere la ricattabilità delle persone in questo momento storico o a introdurre ammortizzatori sociali universali?
Quanto ci vorrà perché nei nostri programmi sia scritto a chiare lettere che bisogna rimettere al centro la questione della riduzione degli orari di lavoro e del diritto alla felicità?
La redistribuzione del lavoro, la conciliazione per tutti e tutte di tempo di lavoro e tempi di vita e la garanzia di un reddito che consenta di vivere non sono solo obiettivi giusti, utopiche visioni che ci devono guidare. Si tratta di trasformazioni necessarie per attraversare la tempesta della rivoluzione tecnologica che è già in atto.
Ma questo si può fare solo se si agisce sulla leva della redistribuzione e questo ci porta ad affrontare la grande questione fiscale e delle “isole del tesoro”.
Sono anni che colossi dell’industria digitale come Google, Facebook o Amazon sono tra i primi soggetti quotati nelle borse internazionali. Quello che però sta avvenendo va ben oltre la valorizzazione finanziaria delle piattaforme internet, che tutti comunemente conosciamo.
Stando al recente rapporto della Commissione Europea, in un anno Apple, Google, Amazon, Twitter, Facebook e Ebay hanno versato al Fisco italiano soltanto nove milioni di euro, a fronte di un mercato e-commerce, in cui sono egemoni, che vale più di 11 miliardi. Come è possibile?
Guardiamo il caso di Apple: l’azienda paga un centesimo e mezzo % di tasse, perché le imposte sul reddito generato dalle vendite italiane (e così succede in tutta Europa) vengono trasferite in Irlanda, o attraverso delle tecniche di “transfer pricing” oppure fatturando “direttamente nel Paese”. Una volta in Irlanda la somma viene abbattuta e poi trasferita a un “head office” senza dipendenti né sede geografica, ossia praticamente senza tasse. L’esito di tutto ciò è che nel 2014 Apple ha realizzato in Italia entrate sopra il miliardo, versando al Fisco 4,2 milioni. E in Irlanda, dove quei profitti sono stati dirottati, ha pagato lo 0,005%.
In alcuni di questi casi basterebbe tassare i redditi di impresa in Italia, ossia far pagare le tasse dove il reddito viene generato, per recuperare una cifra compresa tra 2 e 3 miliardi, introdurre insomma una “web tax” o “digital tax” come in tanti chiedono da tempo, mentre il Governo temporeggia nell’attesa di un fantomatico intervento coordinato a livello europeo.
Inoltre, il Beps, il comitato speciale creato in seno all’Ocse per limitare le pratiche di elusione fiscale delle multinazionali, ha pubblicato le sue proposte lo scorso ottobre. Bisognerebbe adottarle.
Ma le top player di internet non sono le sole a usare certi stratagemmi. Quanto appena descritto non è tanto dissimile dai risultati di un’indagine che abbiamo svolto lo scorso anno sulle aliquote Irap versate dalle grandi aziende piemontesi. Abbiamo scoperto che il gettito complessivo del pagamento dell’IRAP da parte di trenta grandi aziende rappresentava solo il 5% delle entrate complessive.
A partire dal 2011, due delle più grandi aziende piemontesi e fra i maggiori contribuenti fino al 2010, hanno versato un’aliquota IRAP equivalente a € 0, dichiarando un valore della produzione negativo; negli ultimi due anni, poi, un’altra grande azienda piemontese ha dichiarato un valore di produzione negativo (versando quindi € 0), anche se nell’ultimo anno il suo fatturato ha continuato a crescere quasi del 30%.
A voi pare normale che il giornalaio davanti alla porta 5 di Mirafiori paghi più di FIAT? Che il barbiere che resiste in via Nizza paghi paghi più del colosso Eataly?
Se in questi anni l’Europa avesse mostrato la stessa severità che ha riversato sul popolo greco e sullo stato sociale europeo verso, per esempio, i re della moda e dell’elusione (Prada, Armani, Luxottica, Delfin – Del Vecchio, Permira – Valentino, Marzotto, Bulgari, Dolce &Gabbana, Benetton, BC Partners, Apax…); se, invece di difendere i dogmi dell’austerity, avesse chiesto indietro le ingenti somme di tasse non versate detenute nei cosiddetti “paradisi fiscali”, per esempio a Amazon, Apple, Google, Walt Disney, Mediaset, Cir, Ebay ecc… (il Governo italiano potrebbe perlomeno avviare un’azione ispettiva nei confronti delle aziende italiane che hanno fatto parte del “sistema LUX”: su 550 presunti accordi fiscali a favore di oltre 340 società ci sono anche 31 società nostrane, per lo più banche);
se tutto ciò fosse avvenuto, avremmo avuto più risorse da ridistribuire e forse non saremmo immersi in questa lunga notte.
Ma non solo. I benzinai d’odio nostrani riescono meglio di noi a intercettare il malessere sociale delle fasce più deboli chiedendo il rispetto delle regole solo ai migranti. Questa è una ricetta molto amata dai padroni del vapore finanziario. Immaginatevi se quei “due minuti” d’odio fossero rivolti alle società con attività nel Granducato del Lussemburgo o in altri Paesi dell’Unione Europea finite nel mirino della Guardia di Finanza, come Mediolanum, Fortis Bank, Azimut, Banca Desio, Bosch, Wind, Fastweb, Arcelor Mittal, Verizon, Ryanair, Glencore, Msc, Pirelli Re, Techint, Aiazzone – Mete, Gruppo Ligresti, Gruppo Ciarrapico, HBG gaming…
Di certo è più facile prendersela con chi scappa da guerre e miseria che schierarsi contro i più potenti (loro si “extracomunitari” di successo, spesso residenti in Svizzera e con doppio passaporto, come i famigerati Sergio Marchionne e John Elkan).
Il finanzcapitalismo è più forte di ieri e ha, purtroppo, pochi nemici per le strade. La sinistra deve puntare i riflettori addosso ai generatori di crisi, che sono lì, in strada, impuniti. Vivono dei regali di Natale comprati su internet, delle nostre email, degli articoli che pubblichiamo su internet, degli occhiali da sole che compriamo, “sono intorno a noi ma non parlano con noi”.
Sto cercando di dirvi che siamo di fronte a un cambiamento radicale e graduale assieme. Graduale perché l’inserimento dentro la valorizzazione capitalistica di nuovi modelli di economia e produzione non sta avvenendo con uno shock; radicale perché il cambiamento delle strutture produttive e sociali è netto e profondo a partire dalla vita dei singoli individui.
La quarta rivoluzione industriale insomma non implementerà l’occupazione, la comprimerà facendo nascere nuove forme di sfruttamento.
E’ il caso del mondo della logistica che lavora per Amazon, dei fattorini di Foodora.
Compagni, anche noi smettiamola di chiamarla “sharing economy”, perché in realtà non vi è alcuna condivisione: il rischio è tutto schiacciato sulle spalle dei lavoratori, che investono sul proprio mezzo, sul proprio smart phone e sul proprio tempo.
Il cosiddetto “just in time” richiede sempre più velocità e intensificazione del lavoro vivo residuale: abbattere i costi condividendo azioni che si farebbero comunque, riconoscendo un valore a risorse sottoutilizzate o marginali.
Ecco, benvenuti nella “gig economy”, dove l’uso della tecnologia serve a intensificare lavori a intermittenza che nulla hanno a che fare con la condivisione o l’accesso a servizi, beni o saperi, ma sono funzionali a rendere più efficiente l’impresa, la sua offerta e soprattutto i suoi profitti.
Come ci ricorda Bernard Guetta: “se la sinistra occidentale è in difficoltà ovunque è perché le condizioni che ne avevano alimentato la forza e il successo non esistono più. Direttamente o attraverso la pressione che ha esercitato sulla destra, la sinistra ha permesso spettacolari progressi sociali nel dopoguerra, perché la ricostruzione assicurava lavoro per tutti e perché la paura del comunismo spingeva le aziende a fare concessioni”.
“La sinistra, come accadeva agli albori del movimento operaio quasi due secoli fa, deve trovare i mezzi per invertire nuovamente i rapporti di forza.
Deve riuscire (e non sarà facile) a ricostituirsi su scala continentale come una potenza pubblica che possa opporsi a un capitale che non conosce più frontiere.”
Questo è il mondo in cui ci troviamo a ricostruire una forza di Sinistra.
Per questo non ho voluto spendere un minuto del mio tempo a parlare di alleanze. Chi vuole discutere con noi di riduzione dell’orario di lavoro, di reddito minimo, di “green new deal”, di elusione fiscale, di tassazione dei profitti e dei patrimoni; chi vorrà lottare con noi contro il lavoro povero e i maghi dell’elusione fiscale, sa dove trovarci.
Ma vi pare che mentre Corbyn vuole alzare il salario minimo a 10 pound l’ora, mentre Hamon introduce nel dibattito francese il tema del reddito universale, la sezione italiana dei socialisti europei discute se è il caso o no di riportare indietro nel tempo i voucher e l’Art. 18 alla legge Biagi o alla riforma Fornero, come si trattasse di tempi d’oro?
Ma si può dire che queste politiche sono solo farina del sacco dei diversamente berlusconiani, delle larghe e piccole intese congeniate dal principale partito di maggioranza che ormai ininterrottamente governa da almeno sei anni?
Ma secondo voi i giovani tra i 18 e 35 anni, che hanno votato all’80% No al referendum costituzionale, si sono espressi semplicemente contro la fine del bicameralismo perfetto o hanno voluto punire gli ideatori della “Voucher Academy”, chi non ha cancellato le 39 forme precarie di contratto, non ha esteso gli ammortizzatori sociali e ha reso ricattabile e precario il contratto a tempo indeterminato?
Ma passiamo a noi. Alle nostre responsabilità.
Pensiamo basti urlare, come fanno Grillo e Salvini, o alzare il livello dello scontro con chi è responsabile del pareggio di bilancio in costituzione e della legge Fornero?
Non basterà e non servirà. Se non sapremo trasformare la brama di vendetta in desiderio di giustizia sociale non servirà proprio a niente.
Anche per questo, come vogliamo usare al meglio la nostra piccola forza?
Credo che sia venuto il momento anche per noi di costruire dei gruppi di lavoro sulle nuove pratiche di lotta non violenta: come possiamo impedire che Trenitalia aumenti i biglietti per i pendolari della Torino Milano senza per forza bloccare ogni giorno i binari?
Come possiamo far sì che ogni capace e meritevole prenda una borsa di studio? Come possiamo aiutare chi esce da una scuola di specialistica di medicina affinché non venga pagato con i gettoni? Come possiamo evitare che un fattorino di Foodora venga pagato a cottimo?
Pensate basti solo il lavoro istituzionale? Fatevelo dire da uno degli ultimi esponenti della sinistra in un Consiglio Regionale. Non basta.
Servite tutti voi. Serviamo tutti noi.
Serve tutta la nostra intelligenza, la nostra forza, il nostro entusiasmo.
C’è ancora speranza.
C’è una nuova forza di sinistra, siete voi, siamo tutti noi.

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