una nuova speranza.

Idee admin 20 luglio 2011

Dieci anni fa centinaia di migliaia di persone, giovani e adulti, donne ed uomini, di tutto il mondo si diedero appuntamento a Genova per denunciare i pericoli della globalizzazione neoliberista e per contestare i potenti del G8, intenti a convincere il mondo che trasformare tutto in merce avrebbe prodotto benessere per tutti.

Le persone che manifestavano a Genova erano parte di un grande movimento “per un mondo diverso possibile” diffuso in tutto il pianeta. Era nato a Seattle nel  1999 con una grande alleanza fra sindacati e movimenti sociali, e ancor prima nelle selve del Chiapas messicano. Nel gennaio 2001 si era incontrato nel grande Forum Sociale Mondiale a Porto Alegre in Brasile che aveva riunito la società civile, i movimenti, le organizzazioni democratiche di tutto il mondo.

Quel movimento diceva – e ancora oggi dice – che la religione del mercato senza regole avrebbe portato al mondo più ingiustizie, più sfruttamento, più guerre, più violenza. Che avrebbe distrutto la natura, messo a rischio la possibilità di convivenza e persino la vita nel pianeta. Che non ci sarebbe stata più ricchezza per tutti ma, piuttosto, nuovi muri, fisici e culturali, tra i nord ed i sud del mondo. Non la pacificazione, conseguenza della “fine della storia”, ma lo “scontro di civiltà”.

Dopo essermi immerso nelle storie e nelle letture del decimo anniversario di quei giorni sono andato a cercare i segni di quei ricordi. Non è stato difficile. Impossibile cancellare il boato delle migliaia di voci che gridavano con me “Genova libera”, i sorrisi di chi aveva deciso di sfidare i governi di un mondo distante dal pianeta e la sospensione del diritto nel nostro continente, la paura di perdere per sempre nelle strade infiammate di luglio un’amica o un compagno. Quella notte di dieci anni fa tutti ci dicevano di non partire, di lasciar perdere. Noi pensando che fosse il nostro tempo non ci ragionammo molto su. Dovevamo esserci.

Come oggi anche allora non mi piaceva la retorica dell’assalto e della guerra civile, non mi piaceva l’ambiguità di alcune parole d’ordine e del non rifiuto della violenza. Eppure in quel clima surreale vibrava dentro e fuori la stessa rabbia. Quella di una generazione che grida ai propri coetanei “assassini” di un loro coetaneo.  Molti avevano letto Pasolini  e proprio per questo sapevano che il nemico era lì vicino nelle stanze della zona rossa a comandare quel teatrino di guerra.

Gli scontri di Genova furono uno spartiacque per tanti.  Con molt* compagn* abbiamo continuato a camminare per le strade del mondo, da Parigi a Porto Alegre, da Nizza a Buenos Aires, da Londra a Roma. Da lì a poco la seconda super potenza del mondo sarebbe scesa in campo per dire no alle guerre preventive e alla violenza come mezzo di risoluzione dei conflitti.

Sono passati dieci anni eppure non sentiamo e non vediamo giustizia. Poche istituzioni hanno chiesto scusa per le barbarie della scuola Diaz, dei pestaggi di Bolzaneto e delle inammissibili repressioni a manifestanti inermi.

Ancora meno sono quelle che riconoscono le ragioni di quel movimento.

Eppure i nostri avversari di allora non stanno così bene. Il G8 conta sempre meno e persino il Fondo Monetario è cambiato, tanto da essere il primo a voler intervenire in Grecia prestando soldi invece che predicando il rigore dei conti pubblici.

La cosa più difficile è dover constatare la somiglianza tra l’atteggiamento della Ue sulla Grecia e quelle del Fmi sull’Argentina di dieci anni fa.

Purtroppo per chi come me già nel 2001 credeva nell’Europa e nel suo ruolo, tutto ciò rappresenta un’ulteriore sconfitta. Mi piacerebbe sentire dire dalla politica che il “rigore totale”  richiesto dalla Germania sulla Grecia è miope come le politiche del Washington Consensus.

Si guarda al debito pubblico come fonte di tensioni sui mercati e di aumento del rischio dei titoli pubblici quando il vero problema all’origine del famigerato “spread” è in quali mani è il debito, ovvero il debito estero. E se il problema è il debito estero (più import che export) il rimedio non è devastare la spesa sociale, ma investire sulla competitività (innovazione, ricerca) e sulla riconversione ecologica dell’intero sistema.

Oggi come allora, si predicano le privatizzazioni, le dismissioni dei beni comuni, senza capire che un’entrata una tantum può sì sostituire le entrate annuali dei dividendi delle società pubbliche, ma rimane l’impoverimento del patrimonio di uno Stato, il che rende più rischiosi i suoi titoli e più deboli le sue finanze.

Non tutto però è come prima: basti considerare che senza FMI l’Argentina ora starebbe meglio e senza l’UE oggi la Grecia sarebbe fallita.

Capisco che in pochi sostengano la necessità di un nuovo “green new deal” e un’Europa politica che si candidi a diventare il motore di un nuovo umanesimo che sappia cogliere le sfide dei cambiamenti climatici e della finitezza delle risorse terrestri.  Mi basterebbe vedere negli occhi e nelle parole della sinistra la necessità e il bisogno di cambiare profondamente i dogmi della globalizzazione, di ribaltare il paradigma economico neoliberista che negli ultimi anni si è adattato ai nuovi scenari senza mettersi in discussione, di democratizzare i meccanismi che regolano l’economia mondiale partendo dal controllo e i dai limiti della finanza.

Vorrei che almeno la sinistra, dopo 10 anni, imparasse a rimettere al centro l’uomo (il lavoratore, lo studente, l’abitante di oggi e di domani, il cittadino)e il pianeta,  invece che pretendere l’adattamento delle persone e della terra alle regole dei mercati e dell’economia. Di Genova, oltre al ricordo, dovremmo tenere in serbo anche questa coraggiosa battaglia culturale.

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