“spezziamo catene e braccialetti”, tra cottimo e gratuità, come fermare lo sfruttamento

diritti, Idee, lavoro, sinistra TAGS / lavoro admin 12 febbraio 2018

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Cominciamo dal lavoro, e cominciamo col ribadire quello che purtroppo ormai è chiaro a tutti: l‘Italia, dopo dieci anni di recessione, è un Paese più povero, ma soprattutto molto più diseguale. Questo è lo scandalo a cui porre rimedio, oltre che una delle cause principali di una crescita debole e disomogenea.
Quindi è chiaro che dobbiamo ricominciare a dire che la redistribuzione della ricchezza si fa con la piena e buona occupazione, ovvero attraverso quel piano straordinario per il lavoro e gli investimenti, che Luciano Gallino ha chiamato “Green New Deal”: un piano coordinato di interventi che apra la strada alla riconversione ecologica dell’economia e garantisca un’inversione sul piano occupazionale.

C’è tanto da fare: messa in sicurezza del territorio, delle scuole, degli ospedali, degli edifici pubblici e delle abitazioni; energie alternative, risorse idriche, istruzione, sanità, trasporto pubblico, tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ricerca. Sono tutti investimenti ad alto moltiplicatore, cioè in grado di generare una crescita economica, e quindi una occupazione, molto più elevata rispetto agli sgravi fiscali o ai trasferimenti monetari.

Non bisogna aver paura di dire che lo Stato deve tornare a investire sul lavoro pubblico: sanità, scuola, università, servizi sociali e sicurezza, stabilizzando i precari sulle cui spalle si reggono i nostri ospedali e le nostre scuole, assumendo il personale giovane e specializzato oggi sottopagato e spesso in condizione di sfruttamento.

Il ricatto della precarietà ha eroso la civiltà del lavoro ha portato i salari a livelli tanto bassi, a volte nulli, da produrre dumping sociale ed erosione dei diritti di tutti i lavoratori. Vogliamo abolire il Jobs Act e tutte le forme contrattuali che alimentano il peggiore sfruttamento.

Il ripristino dell’art.18 è conditio sine qua non, ma non basta, il tempo determinato deve tornare a essere giustificato da una causale, la giungla di forme contrattuali precarie introdotte nell’ultimo ventennio, che decreto Poletti e Jobs act hanno contribuito a rafforzare, deve essere superata una volta per tutte.

E soprattutto, nessuna forma di lavoro può essere svolta in modo gratuito, a cottimo o sottopagata rispetto a quanto previsto dai contratti nazionali.

Molte cose si possono fare per tutelare il lavoro dipendente:

  • di investire con forza nei servizi ispettivi delle direzioni territoriali e Inps, da anni pesantemente sotto organico e in profonda carenza di risorse economiche, per contrastare efficacemente il lavoro nero e la diffusione di falsi contratti part-time, che dissimulano impieghi effettivamente a tempo pieno; il contrasto al lavoro nero e “grigio” è condizione imprescindibile per garantire il rispetto della retribuzione oraria stabilita dai contratti collettivi nazionali;
  • elevare il costo orario degli straordinari;
  • riformare la normativa sull’assegnazione degli appalti, per impedire la possibilità di competere sul costo del lavoro, prevedendo la parità del trattamento economico e normativo tra lavoratori occupati dall’appaltante e lavoratori occupati dall’appaltatore;
  • contrastare le cooperative spurie e, in generale, le false imprese utilizzate per finte esternalizzazioni di manodopera al fine di aggirare norme contrattuali e mettere in atto evasioni fiscali e contributive;
  • garantire sempre la piena responsabilità solidale del committente, relativamente a salari e contributi e la clausola sociale in ogni evenienza di cambio d’appalto;
  • rafforzare strumenti e risorse dell’ispettorato del lavoro;
  • approvare una legge sulla rappresentanza sindacale, che assicuri valore solo ai contratti firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi e approvati dai lavoratori e dalle lavoratrici.

Poi c’è una questione, che non ottiene mai la giusta centralità: l’occupazione femminile. Quando il divario fra le opportunità e i livelli salariali di uomini e donne sarà sanato e i compiti fra uomini e donne redistribuiti, potremo parlare di una vera rivoluzione. Una rivoluzione non solo giusta, ma estremamente vantaggiosa anche in termini economici.

Di che cosa c’è bisogno?

  • Di una normativa che obblighi alla trasparenza (tutelando i dati sensibili) delle differenze salariali tra generi e che escluda dagli appalti pubblici quelle aziende che non la rispettano;
  • di favorire della conciliazione tra lavoro e vita familiare, con misure strutturali di sostegno alla genitorialità che superino i vari bonus previsti attualmente;
  • di un piano straordinario di investimenti per estendere a tutto il territorio nazionale la possibilità di accedere ad asili nido pubblici;
  • di incentivare forme di lavoro caratterizzate da flessibilità di orario (es. banche del tempo) e luogo (lavoro a distanza, smart work) sia per le madri che per i padri;
  • dell’estensione dei congedi, con un aumento della durata del congedo paterno obbligatorio e una maggiore copertura economica del congedo parentale, se anche il padre ne fa ricorso per almeno un mese, in modo da incentivare la condivisione della cura genitoriale ed evitare che sia sempre solo la donna a sacrificare il proprio percorso professionale e a rinunciare a una quota importante del proprio stipendio;
  • di misure a favore dell’imprenditoria femminile;
  • di interventi in materia pensionistica con la proroga di “Opzione donna” oltre il 2018.

Dobbiamo, a sinistra, cominciare a conoscere e rappresentare quello che alcuni chiamano il “quinto stato”: l’universo estremamente diversificato del lavoro autonomo e professionale, dove da tempo si annidano nuove forme di sfruttamento, impoverimento e assenza di tutele. E un mondo con cui da qualche tempo ci proponiamo di parlare, ma spesso senza davvero conoscerne la lingua e la realtà quotidiana.

Che cosa possiamo fare per ridurre le ingiustizie che molti lavoratori a partita iva subiscono?

  • innanzitutto, ridurre la pressione fiscale e contributiva complessiva sulle partite iva, con particolare attenzione ai professionisti senza cassa, traslando i maggiori effetti della progressività dell’impostazione sui redditi da lavoro autonomo superiori ai 100mila euro; le imposte e la contribuzione pesano in maniera onerosa su fasce di fatturazione più bassa, se si considera che il lavoratore autonomo non solo non gode delle tutele del lavoro dipendente, ma si assume il rischio di impresa, la flessibilità dei clienti, i costi di business developement e una sostanziale impossibilità di deduzione fiscale delle imprese spese;
  • la predisposizione di schemi contrattuali con i clienti committenti;
  • un sistema sanzionatorio che scoraggi il ricorso a clausole e condotte abusive;
  • ove possibile, un equo compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto;
  • un codice di condotta che regoli i rapporti tra committenti e lavoratori autonomi;
  • la previsione di tutele in caso di maternità, inattività, cessazione temporanea, invalidità o infortunio.

Da troppi anni le lavoratrici e i lavoratori italiani sentono di non avere alcuna difesa contro gli effetti peggiori della globalizzazione.

È il momento di proteggerli con alcuni strumenti:

  • l’applicazione a tutti i lavoratori e le lavoratrici che operano sul territorio nazionale del CCNL appropriato, senza alcuna possibilità di deroga;
  • impegno a livello europeo per la correzione della direttiva Bolkenstein e di quella sui servizi professionali, per garantire che attività come i call center debbano essere svolte nel paese dove opera l’impresa committente;
  • sanzioni per le imprese che delocalizzano gli impianti avendo ottenuto agevolazioni, detassazioni e contributi pubblici, a partire dalla integrale restituzione di ogni singolo euro ricevuto;
  • iniziativa a livello europeo per introdurre dazi nei confronti delle imprese extra-UE che non rispettino standard adeguati per la tutela del lavoro, dell’ambiente e della sicurezza alimentare;
  • la messa in discussione degli accordi internazionali CETA e TTIP, che antepongono la finalità del libero scambio alla tutela dei consumatori e dei diritti dei lavoratori, fino ad attribuire alle multinazionali la possibilità di citare in giudizio i poteri legislativi pubblici davanti ad arbitrati privati.

E poi, è tempo di introdurre un limite alla disparità fra salari e stipendi medi dei lavoratori e compensi dei manager, anche nel settore privato.

In particolare si deve prevedere la non deducibilità delle retribuzioni in eccesso e l’esclusione dalle gare pubbliche e dalle concessioni per le imprese che non rispettino gli standard. I premi dei dirigenti devono essere ancorati a obiettivi precisi, se non vogliamo continuare a vedere abusi negli appalti pubblici nei confronti dei lavoratori.

Infine c’è una battaglia che mi sta particolarmente a cuore perché, come la redistribuzione del lavoro produttivo e di cura fra uomini e donne, trasformerebbe profondamente in meglio la nostra società. È una vecchia battaglia, ma estremamente attuale in un’epoca segnata da grandi progressi sul piano dell’automazione e della robotizzazione che si portano dietro una perdita vertiginosa di posti di lavoro: la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. L’Onu sostiene che “i robot sostituiranno il 66% del lavoro umano”. E nel giro di poco tempo a scomparire saranno non solo molti lavori manuali, ma tante professioni intellettuali. Nel frattempo, nel nostro presente, vediamo una sperequazione enorme fra chi non ha lavoro e chi ne ha troppo, sopportando carichi esorbitanti in termini di orario e di fatica. Per questo è tempo di tornare a dire che dobbiamo lavorare meno e lavorare tutti.

È possibile un sistema di incentivi per le imprese che aumentino il numero di occupati riducendo il numero delle ore dei dipendenti, ma ovviamente senza ridurne lo stipendio mensile.

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