se questa è Europa.

diritti, Idee, sinistra TAGS / 60 anniversario trattati Roma, europa, muri, Tax ruling admin 30 marzo 2017

GRIM Aula_ EUROPA

Avevo appena compiuto 9 anni quando il 9 Novembre 1989 veniva demolito il muro di Berlino. Guardavo gli adulti commossi e plaudenti, che assistevano alla fine delle due Germanie. Ho letto più avanti che nei giorni in cui le ruspe erano in azione tutto il continente festeggiava. Mai più muri, mai più simili crudeltà, i tedeschi dell’est si riabbracciavano con quelli dell’ovest che li accoglievano festanti. Poteva avverarsi il sogno di un’Europa unita.

Già, poteva… Perché a 27 anni di distanza da quel 1989, che cosa è successo? Purtroppo vediamo solo l’ombra di quello spirito di fratellanza che dovrebbe unire i popoli europei.

L’Europa dei muri, degli egoismi nazionali, è più presente e viva che mai. I muri ci sono ancora, anzi si sono moltiplicati. Di fronte alla pericolosissima minaccia delle nuove “invasioni barbariche”, ci sono Paesi che hanno alzato barriere invisibili ma efficaci. Germania, Francia, Austria, Danimarca, Svezia e Norvegia hanno infatti reintrodotto i controlli alle frontiere, in palese disarmonia con la libera circolazione di uomini e merci prevista negli accordi di Schengen, la più grande conquista dell’Europa unita e condizione indispensabile per la sua sopravvivenza.

L’Ungheria invece, il suo fossato medievale se l’è proprio costruito materialmente. Si tratta di un ammasso di reti, filo spinato e cemento che dovrebbe tenere alla larga gli “invasori”. Peccato però che questi “barbari” non siano armati, non vogliano dichiarare guerra a nessuno anzi, dalla guerra fuggono. E gli altri, quelli che “a casa loro non c’è nessuna guerra”, fuggono da una miseria che per molti versi è peggiore di una guerra stessa.

Invece i capitali viaggiano indisturbati…

“Le principali banche europee impoveriscono le finanze pubbliche nascondendo miliardi di profitti nei paradisi fiscali”. La nuova denuncia arriva dall’ultimo rapporto stilato da Oxfam International, secondo cui i primi venti istituti dell’eurozona nel 2015 hanno indirizzato circa un quarto dei loro profitti verso Paesi con regimi fiscali più favorevoli.

“Aprire le casseforti” – così il titolo inequivocabile del report di Oxfam – calcola in circa 25 miliardi di euro i profitti dichiarati in 58 giurisdizioni considerate come paradisi fiscali, che corrispondono al 26% dei profitti generati complessivamente dalle grandi banche nel 2015.

Secondo i dati raccolti dalla Ong, le sussidiarie delle banche che operano nelle giurisdizioni con più bassi livelli d’imposizione sono due volte più profittevoli della media e i loro dipendenti hanno un livello di produttività quattro volte maggiore che altrove – generando un profitto medio di 171mila euro ciascuno all’anno contro una media di 45mila euro. Tra le “stranezze” segnalate, poi, c’è anche il fatto che gli istituti generano ben 628 milioni di euro di utili in Paesi dove non hanno neanche dipendenti.

La parte del leone la fanno Irlanda e Lussemburgo, che contano per circa un terzo dei profitti generati nelle giurisdizioni compiacenti. Solo nel Lussemburgo, i big bancari del Vecchio Continente nell’esercizio fiscale 2015 hanno registrato 4,9 miliardi di euro di utili, “più che nel Regno Unito, Svezia e Germania messe insieme”.

Per capire i 60 anni di Europa dobbiamo iniziare da qui, dalla fonte delle disuguaglianze, dalla fonte dell’accumulo dei capitali.

Ma è riduttivo parlare di banche se non si affronta più in generale la grande questione fiscale e delle “isole del tesoro”.
Sono anni, infatti, che colossi dell’industria digitale come Google, Facebook o Amazon sono tra i primi soggetti quotati nelle borse internazionali. Quello che però sta avvenendo va ben oltre la valorizzazione finanziaria delle piattaforme internet, che tutti comunemente conosciamo.
Stando a un recente rapporto della Commissione Europea, in un anno Apple, Google, Amazon, Twitter, Facebook e Ebay hanno versato al Fisco italiano soltanto nove milioni di euro, a fronte di un mercato e-commerce, in cui sono egemoni, che vale più di 11 miliardi. Come è possibile?
Guardiamo il caso di Apple: l’azienda paga un centesimo e mezzo % di tasse, perché le imposte sul reddito generato dalle vendite italiane (e così succede in tutta Europa) vengono trasferite in Irlanda, o attraverso delle tecniche di “transfer pricing” oppure fatturando “direttamente nel Paese”. Una volta in Irlanda la somma viene abbattuta e poi trasferita a un “head office” senza dipendenti né sede geografica, ossia praticamente senza tasse. L’esito di tutto ciò è che nel 2014 Apple ha realizzato in Italia entrate sopra il miliardo, versando al Fisco 4,2 milioni. E in Irlanda, dove quei profitti sono stati dirottati, ha pagato lo 0,005%.

In alcuni di questi casi basterebbe tassare i redditi di impresa in Italia, ossia far pagare le tasse dove il reddito viene generato, per recuperare una cifra compresa tra 2 e 3 miliardi, introdurre insomma una “web tax” o “digital tax” come in tanti chiedono da tempo, mentre il Governo temporeggia nell’attesa di un fantomatico intervento coordinato a livello europeo.

Inoltre il Beps, il comitato speciale creato in seno all’Ocse per limitare le pratiche di elusione fiscale delle multinazionali, ha pubblicato le sue proposte lo scorso ottobre. Bisognerebbe studiarle e adottarle urgentemente.
Ma le top player di internet non sono le sole a usare certi stratagemmi. Quanto appena descritto non è tanto dissimile dai risultati di un’indagine che abbiamo svolto lo scorso anno sulle aliquote Irap versate dalle grandi aziende piemontesi alla fiscalità regionale. Abbiamo scoperto che il gettito complessivo del pagamento dell’IRAP da parte di trenta grandi aziende rappresentava solo il 5% delle entrate complessive.

A partire dal 2011, due delle più grandi aziende piemontesi e fra i maggiori contribuenti fino al 2010 hanno versato un’aliquota IRAP equivalente a € 0, dichiarando un valore della produzione negativo; negli ultimi due anni, poi, un’altra grande azienda piemontese ha dichiarato un valore di produzione negativo (versando quindi € 0), anche se negli ultimi anni i suoi fatturati hanno continuato a crescere quasi del 30%.

Ecco, se in questi anni l’Europa avesse mostrato la stessa severità che ha riversato sul popolo greco e sullo stato sociale europeo verso, per esempio, i re della moda e dell’elusione; se, invece di difendere i dogmi dell’austerity, avesse chiesto indietro le ingenti somme di tasse non versate detenute nei cosiddetti paradisi fiscali; se tutto ciò fosse avvenuto, avremmo avuto più risorse da ridistribuire e forse non saremmo immersi in questa lunga notte.

Invece la politica tutta, con l’Europa dei nazionalismi e dei populismi in testa, sta fallendo nella propria missione: mentre si alzano barriere per escludere i più poveri e i “dannati della terra” da un’opportunità di crescita e di vita, i padroni del vapore finanziario manovrano indisturbati i loro capitali. Di certo è più facile prendersela con chi scappa da guerre e miseria che schierarsi contro i più potenti – loro si “extracomunitari” di successo, spesso residenti in Svizzera e con doppio passaporto.

Il  turbo capitalismo è più forte di ieri e ha, purtroppo, pochi nemici per le strade.

La politica allora deve puntare i riflettori addosso ai generatori di crisi, che sono lì, in strada, impuniti. Vivono dei regali di Natale comprati su internet, delle nostre email, degli articoli che pubblichiamo in rete; siamo di fronte a un cambiamento radicale e graduale assieme.

Eppure c’è un’altra Europa.

La nostra generazione, a discapito della crisi politica, prima che economica e sociale, è forse la più europea: nata in un continente unito, senza guerre interne, una “generazione Erasmus” per la quale parlare due o tre lingue è la norma, disponibile a spostarsi per studio e lavoro. Insieme però è anche la più critica, perché nell’Europa unita hanno prevalso le necessità della finanza rispetto a quelle dei cittadini, la logica dell’austerità e dei numeri rispetto a risposte utili alla comunità in termini di welfare, solidarietà, diritti, saperi.

Allora forse questa generazione è chiamata a una battaglia politica.

Come ha scritto Monica Frassoni, la nostra battaglia per un’altra Europa deve articolarsi lungo tre direttive fondamentali: un diverso modello economico che rifiuti austerità e fiscal compact nei trattati, pretenda un’Unione bancaria, la mutualizzazione del debito e il lancio di un vero Green New Deal; una mobilitazione radicale e diffusa per l’accoglienza, contro ogni muro, ogni rigurgito xenofobo ma anche ogni accordo che abbia al centro la “rimozione” dei profughi, consegnati a governi tirannici e violenti; una lotta per ottenere più democrazia e più diritti nello spazio comune europeo, attraverso una profonda riforma dei suoi meccanismi decisionali e delle sue istituzioni.

Solo così, ritrovando lo spirito di un’Europa libera, unita e solidale, potremo davvero tornare a festeggiare e celebrare qualcosa.

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